la nostra (in)esperienza
Il coach giovane, nelle prime 100 ore, si sente inesperto e ascolta il cliente con le antenne dritte.
Ma alla millesima ora tutto gli sembra già visto: appena il cliente comincia a parlare già gli esce la risposta dalla bocca.
Brutto vizio, l’esperienza: si distrae dalle variabili appena riconosce le costanti. Ma sono le variabili che distinguono un cliente da tutti gli altri.
Quando l’esperienza invece di sensibilizzare ti anestetizza, la chiamiamo (out)experience.
Verso le 10.000 ore il coach team lo ha capito bene: le costanti sono lo sfondo, le variabili sono l’informazione. Il coach alza bene le antenne e ti ascolta, entra con cautela nel tuo universo e prima di darti risposte vuole imparare il senso delle tue domande. Solo dopo potrà risponderti, indirizzarti e (se serve) smentirti.
La chiamiamo (in)esperienza: significa che adesso abbiamo più di 12.500 ore di coaching alle spalle eppure la prima ora con te sarà la prima, perché ci vuole un (in)esperto per ascoltare le tue esigenze singolari.
Chi ha solo (out)experience tende invece a capire di te solo quello che somiglia al mondo che già conosce.
Crea una visione standardizzata delle tue richieste a cui può dare risposte standardizzate: oltre a tutti i difetti evidenti, c’è anche quello di farvi assomigliare tutti.
Non va bene: anche le PMI hanno bisogno di biodiversità, non possono diventare una monocultura di mais tutto uguale, devono essere un bosco di mille specie diverse.
Quindi probabilmente la cosa in cui tu sei speciale è esattamente quel dettaglio su cui noi vogliamo sentirci (in)esperti.